Con la sentenza n. 148 della CTR di Ancona, depositata l’8 marzo 2016, è stata, ancora una volta, disconosciuta la legittima applicazione dell’inversione contabile a un esercente l’attività di “compro oro” che aveva ceduto i propri preziosi usati (acquistati da privati) ad un’azienda dedita alla lavorazione e fusione degli oggetti acquistati. I motivi del mancato riconoscimento, in capo al cedente, dell’art. 17, comma 5, del DPR n. 633/72, sono riconducibili, a parere dei togati tributari di grado superiore, in primis, all’assenza dei requisiti di Operatore Professionale in oro, di cui all’Art. 1, comma 3, Legge 7/2000 e, successivamente, alla inefficace dimostrazione, da parte del soggetto cessionario, dell’esercizio esclusivo dell’attività di fusione.
A tal riguardo, bisognerebbe, innanzitutto, prendere atto che la condizione soggettiva del cedente (compro oro), e cioè la propria iscrizione all’Albo degli Operatori Professionali in oro tenuto presso la Banca d’Italia, non rappresenta, in modo alcuno, una condizione necessaria e imprescindibile che legittima l’applicazione del meccanismo del reverse charge nelle cessioni di oggetti preziosi usati; requisito che dovrà, invece, possedere inequivocabilmente, il soggetto cessionario, cioè la fonderia e/o il fabbricante, per il soddisfacimento di tale condizione impositiva.
Tanto è stato chiarito, da ultimo, con la Risoluzione n. 92/E dell’Agenzia delle Entrate del 12 dicembre 2013, che ha dettato le condizioni necessarie, soggettive e oggettive, per la legittima applicazione dell’inversione contabile (art. 17, co. 5, DPR 633/72 di cui all’art. 3, co. 4, Legge 7/2000) nelle cessioni di preziosi usati; il documento di prassi, infatti, richiama il principio di “vocazione” alla lavorazione industriale dei beni di gioielleria, non solo quando oggettivamente inidonei ad essere inseriti nel circuito commerciale, perché rotti o avariati, ma anche quando, benché integri e teoricamente suscettibili di ulteriore utilizzo, siano ceduti a operatori che effettuano solo ed esclusivamente attività industriale di trasformazione e affinazione del metallo prezioso. Da tali condizioni soddisfatte, quindi, l’utilizzo del principio di “assimilazione” (ai fini IVA) al materiale d’oro ad uso industriale, di cui all’art. 3, comma 4 della Legge 7/2000, che contempla l’applicazione del Reverse Charge anche per gli oggetti preziosi usati destinati a fusione, come indicato dallo stesso documento di prassi n. 92/E dell’Agenzia delle Entrate.
Infatti, anche dal punto di vista soggettivo, la stessa Risoluzione stabilisce che in considerazione dell’univoca destinazione degli oggetti preziosi alla lavorazione industriale effettuata dal cessionario, il meccanismo del “Reverse Charge” è applicabile da parte dei commercianti all’ingrosso e/o al dettaglio dei preziosi, che acquistano oggetti d’oro usati per poi rivenderli, sotto forma di rottami d’oro, a soggetti che operano esclusivamente nel settore dell’affinazione e del recupero di metalli preziosi.
L’elemento di fondamentale importanza, pertanto, è costituito dall’attività del cessionario, dei beni d’oro usati, che a loro volta, sonoritenuti per vocazione destinati a fusione, quando lo stesso effettui esclusivamente l’attività di lavorazione industriale; ovvero sia un’azienda di fabbricazione di oggetti preziosi nuovi, anche in possesso di un marchio di identificazione ai sensi del D.Lgs. 251 del 1999.
Contrariamente, l’esercizio contestuale e/o secondario all’attività commerciale di oggetti preziosi di gioielleria esercitate dallo stesso cessionario impedisce l’assolvimento dell’imposta con il meccanismo dell’inversione contabile.
Definito l’ambito oggettivo e preso atto che l’indirizzo soggettivo che legittima l’applicazione del Reverse Charge e preso atto che l’utilizzo dello stesso metodo applicativo dell’imposta IVA è riconosciuto legittimo anche in capo a soggetti economici non iscritti all’Albo di Banca d’Italia, quindi privi dei requisiti dettati dalla Legge n. 7 del 2000 all’art. 1 comma 3, bisogna stabilire soggetti e modalità che devono dimostrare e/o contestare l’effettiva destinazione della gioielleria usata, ceduta per la lavorazione industriale.
Ciò detto, per quanto concerne l’onere della prova, l’art. 2697 del Codice Civile sancisce che chi vuol far valere un diritto o una pretesa in giudizio è gravato dall’onere di provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Nel contenzioso definito dalla sentenza de quo della C.T.R. di Ancona, è l’Agenzia delle Entrate tenuta a provare l’illegittima applicazione dell’IVA da parte del soggetto accertato.
In tale fattispecie, l’Ufficio accertatore, a dimostrazione dell’esercizio anche dell’attività commerciale da parte della società cessionaria, produce elementi rintracciati unicamente nella Visura Camerale e dall’Anagrafe Tributaria che, considerando la loro esiguità, non rappresentano prove ma elementi indiziari. Infatti, il settore aurifero, privo di codici Ateco di riferimento ben precisi che individuino in modo univoco sia il commercio dell’Oro fino sia il commercio degli oggetti di gioielleria usata, obbliga i commercianti di oro fino e i commercianti di gioielleria usata a ricorrere al codice attività in uso ai gioiellieri.
Data la situazione generale di specie e considerati i poteri istruttori di cui è dotata l’Amministrazione Finanziaria, si ritiene che l’Agenzia di Ancona avrebbe potuto e dovuto ricorrere a ben più incisive attività di verifica previsti dall’art. 32 del DPR 600/’73 e art. 51 del DPR 633/’72, per addivenire in modo più concreto e attendibile all’effettiva attività svolta dal cessionario della ditta accertata. Il riferimento è ai Questionari, alla consultazione del Cli.Fo., o anche accessi brevi presso il cessionario ecc..
Su tale ultimo aspetto, di recente, si è espressa la CTP di Ascoli Piceno che con la sentenza del 12 maggio 2015, n. 250 offre un valido contributo circa il valore probatorio espresso dalla visura camerale e dal codice statistico ATECO.
In tale sentenza la Commissione Tributaria sancisce che tali elementi non rappresentano elementi sostanziali di prova atti a dimostrare l’effettivo svolgimento di un’attività d’impresa; infatti, i giudici stabiliscono che tali documenti e informazioni non siano sufficienti a dimostrare la reale attività svolta da parte di un’impresa.
A tal proposito, un punto fermo è stato fissato dalla sentenza della Suprema Corte del 7 ottobre 2014 n. 41686, emessa in merito ad una controversia basata sulla valenza probatoria della certificazione camerale e sul suo valore dimostrativo dell’esercizio dell’attività d’impresa. In tale circostanza, la Cassazione ha dichiarato l’insufficienza probatoria della visura camerale e ha sancito, inoltre, l’importanza del principio di prevalenza della sostanza sulla forma, ponendo l’accento sul “criterio sostanziale” a cui i giudici di merito avrebbero dovuto riferirsi per la determinazione della oggettiva condizione aziendale, anziché, attribuire rilievo “unico e decisivo” al certificato della Camera di Commercio.
Tornando, quindi, all’esame della pronuncia della CTR di Ancona, dopo aver chiarito quali sono i termini di applicazione della norma e a seguito dell’individuazione della parte su cui ricade l’onere della prova, si deve riconoscere che tale obbligo non può ritenersi debitamente assolto con la presentazione di elementi di forma aventi valore indiziario e, inoltre, in assenza di fatti gravi, precisi e concordanti, non c’è inversione dell’onere della prova o possibilità di ricorrere a presunzioni semplici. Pertanto, dunque, la condanna della ditta al versamento dell’imposta già assolta dal cessionario con l’inversione contabile sembra essere troppo severa se si considera anche la riforma delle sanzioni per utilizzo improprio del Reverse Charge.
COMPRO ORO E REVERSE CHARGE ASSOLVIMENTO POSSIBILE SENZA ISCRIZIONE A BANCA D’ITALIA (122.9 KiB)