L’ha stabilito la C.T. Reg. di Bari, considerando però solo lo stato fisico di tali beni fini usati e non la reale funzione assolta nelle cessioni a fonderie
Non si placa lo stato d’incertezza sull’applicazione del meccanismo del reverse charge nella cessione degli oggetti preziosi usati e/o avariati da parte dei “Compro Oro” a fonderie. La recente sentenza n. 213/23/13 dalla C.T. Reg. Bari, sezione staccata di Lecce, rappresenta una prova tangibile e perdurante del grado di difficoltà oggettiva riscontrata, nel trattare la materia in questione, da parte di alcuni organi giudicanti oltre che di quelli di verifica e di accertamento.
I giudici di secondo grado, pur non condannando al versamento dell’IVA il soggetto verificato, per la mancata prova dell’evasione d’imposta (verifica sulla corretta applicazione in capo al cessionario), non riconoscono l’utilizzo del reverse charge nelle cessioni di preziosi (oggetti d’oro usati) effettuate dal soggetto ricorrente (“Compro oro”) ai propri cessionari. Infatti, riformando la sentenza di primo grado, stabiliscono la condanna del ricorrente alla sola sanzione del 3% di cui al comma 9-bis dell’art. 6 del DLgs. 471/97 per aver assolto irregolarmente l’imposta.
Il caso è rappresentato da un società commerciale esercente l’attività di compro oro, che aveva acquistato oggetti d’oro usati da privati per poi rivenderli, tal quali, a società specializzate nella fusione per il recupero di metalli preziosi emettendo le relative fatture di vendita con la descrizione di “rottami auriferi” e utilizzando, ai fini IVA, il reverse charge di cui all’art. 17, comma 5 del DPR 633/72.
L’Agenzia delle Entrate prima, e la C.T. Reg. di Bari – sezione di Lecce, dopo, nel motivare il rigetto dell’applicazione del reverse charge in tali cessioni, concentrano l’attenzione esclusivamente sullo stato fisico degli oggetti ceduti (beni finiti usati) e su ciò che essi rappresentano commercialmente, senza considerare la reale funzione assolta, dagli stessi, nelle cessioni a fonderie (rottami auriferi); aspetto, questo, di primaria importanza e ripreso, a più tappe, dall’Agenzia in diversi documenti di prassi emanati già a partire dalla risoluzione 375/2002, che ha assunto, man mano, la funzione risolutrice del problema.
Infatti, il parere DRE Lombardia n. 82064 del 22 luglio 2013 rimarca ancor più chiaramente quanto stabilito dalla ris. 375 e cioè: “i prodotti finiti d’oro, ceduti sotto forma di rottami a soggetti passivi che effettuano lavorazione di oro industriale, anche se non sono qualificabili sotto il profilo merceologico come «oro industriale» – nell’accezione delineata dalla legge n. 7 del 2000 –, possono essere assimilati, ai fini IVA, a quest’ultimo prodotto in considerazione dell’univoca destinazione del metallo prezioso alla lavorazione da parte del cessionario”.
Ciò che risulterebbe di difficile comprensione, quindi, è l’importanza assunta, ai fini dell’applicazione dell’IVA con il reverse charge, dell’esclusiva destinazione a lavorazione con successiva fusione dei beni ceduti che, nonostante rappresentino materialmente oggetti d’oro usati, vengono “assimilati” al materiale d’oro ad uso industriale di cui all’art. 1, comma 1, lett. b) della L. 7/2000, le cui cessioni sono assoggettate all’art. 17, comma 5 del DPR 633/72 introdotto dall’art. 3, comma 4 della stessa L. 7/2000; lo stesso “oro industriale” cui sono equiparate tutte le forme di oro grezzo come i “semilavorati” di purezza pari o superiore a 325 millesimi (chiarimento Banca D’Italia del 20 giugno 2001).
Confusione tra “oggetti finiti composti” e “oggetti finiti da assemblare”.
Cosa diversa rappresenterebbe, invece, la definizione di “semilavorati”, richiamata dai giudici in modo avvalorante le motivazioni della sentenza de quo e contenuta nella risoluzione 161/2001; in tal caso, infatti, per semilavorati si intendono i prodotti di processi tecnologici, che pur presentando una struttura finita (montature di anelli, chiusure per collane, ecc.), non risultino diretti ad uno specifico uso o funzione, ma siano destinati ad essere inseriti in oggetti composti dal produttore che opera il montaggio. Solo in tale fattispecie non trova applicazione il meccanismo di cui all’art. 17, comma 5 del DPR 633/72 a favore dell’assolvimento dell’imposta nei modi ordinari.
A tale scopo appare evidente la confusione fatta tra “oggetti finiti composti”, quando rappresentano beni preziosi usati di gioielleria destinati a fusione (assimilati a materiale d’oro a uso industriale – semilavorati) e “oggetti finiti da assemblare”, che devono essere considerati prodotti finiti e non materia prima destinata alla lavorazione. Pertanto, la Commissione ritiene il reverse charge applicabile solo per due categorie di beni: oro da investimento e materiale d’oro ad uso industriale, a cui appartengono semilavorati e rottami di gioielli, di cui all’art. 1, comma 1, lett. a) e b) della L. 7/2000. Gli oggetti finiti, quindi, resterebbero esclusi, incondizionatamente, dall’assoggettamento all’inversione contabile a prescindere dalla loro esclusiva destinazione a fusione con successivo utilizzo del metallo ricavato alla produzione di cui all’art. 1, comma 1 della L. 7/2000 (chiarimento Banca d’Italia del 28 maggio 2010).
In sintesi, oltre al maggior aggravio pecuniario evitato al ricorrente, si ritiene che i giudici regionali abbiano trascurato, obiettivamente, quanto stabilito, in materia, da recenti orientamenti di prassi fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate nonché da vari dispositivi di giurisprudenza tributaria. Tanto non incide, oltremodo, sulle tasche del ricorrente ma genera una difformità di comportamento e di recepimento delle indicazioni suggerite creando maggiori disparità valutative che, inevitabilmente, si ripercuotono sul contribuente.
Autore: dott. Nunzio Ragno
Presidente Associazione Nazionale “Tutela I Compro Oro”
dottore commercialista